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Dipendente contagiato e infortunio: quali conseguenze per il datore di lavoro?

È di questi giorni la notizia, fornita dall’Inail, che ci sono state, nell’ultimo periodo, ben 28.000 denunce di contagio di cui una buona metà effettuate da operatori sanitari.
Questo perché il “Decreto Cura Italia” ha ritenuto di considerare l’eventuale contagio che avvenisse “in occasione di lavoro” (quindi anche in caso di contagio in itinere ad esempio) un infortunio meritevole, in quanto tale, di ricevere la copertura assicurativa Inail.

Bene per il lavoratore che viene tutelato in un momento, quello del contagio e della conseguente malattia, in cui è particolarmente fragile ma la domanda che viene da porsi è: quali conseguenze può avere sul datore di lavoro questa scelta?
Le conseguenze non sono da poco in quanto qualificare il contagio come infortunio sul luogo di lavoro apre la strada, per il datore di lavoro che non abbia adottato le misure necessarie a prevenire il rischio di contagio, ad una possibile responsabilità penale , nei casi più gravi naturalmente, per i reati di lesioni ai sensi dell’art. 590 c.p. e omicidio colposo ai sensi dell’art. 589 c.p., peraltro anche aggravati dalla violazione delle norme di sicurezza sul luogo di lavoro.

Il datore di lavoro, infatti, è normalmente titolare di quella che giuridicamente viene definita una posizione di garanzia/tutela che discende sia dall’art. 2087 c.c. che dalle norme speciali in materia di sicurezza sul luogo di lavoro di cui al D.Lgs. n. 81/2008; posizione che, imputandogli l’onere di tutelare l’integrità fisica dei propri prestatori di lavoro, lo vede responsabile in caso di infortunio di questi ultimi.

E ciò soprattutto se non ha fornito ai propri lavoratori i corretti DPI e le informazioni necessarie per operare in sicurezza limitando il più possibile i rischi di contagio e, alla luce della normativa specifica recente, se non ha rispettato i protocolli di sicurezza redatti dal Governo con le parti sociali per poter riprendere le attività lavorative.
Un campo minato dunque l’ambiente di lavoro per il titolare d’azienda, tenuto per legge ma anche per tutelare la propria posizione in vista di un possibile seppur non auspicabile infortunio, a mettere in piedi tutte le buone pratiche necessarie per ridurre al minimo i rischi di contagio.

E nella malaugurata ipotesi in cui un dipendente venisse contagiato, attivasse l’infortunio sul luogo di lavoro e poi si aggravasse tanto da aprire la strada per una denuncia penale? Beh in quel caso starà alla difesa del datore di lavoro verificare se davvero il contagio è avvenuto in azienda (collegamento più facile per le professioni sanitarie che, come si è visto, sono ben più a rischio contagio e quindi più facilmente apriranno una pratica di infortunio sul luogo di lavoro, molto più difficile per le altre professioni) o se, al contrario, è avvenuto altrove, manlevando così il datore di lavoro dalla responsabilità penale per lesioni o omicidio colposo.

Tutto ciò naturalmente se l’infortunio si verificasse nonostante l’aver posto in essere i protocolli a tutela dei propri lavoratori; se si verificasse invece a causa della mancata messa in pratica di dette regole di protezione allora si potrebbe aprire un procedimento penale ben più grave, non più colposo ma, addirittura, doloso per dolo eventuale, tipologia di dolo che si verifica quando l’agente ha compiuto il fatto di reato non per dolo diretto (cioè con la volontà di ottenere l’evento causato) ma per aver accettato il rischio che la sua attività avrebbe potuto causare detto evento dannoso (nel nostro caso le lesioni gravi o addirittura la morte del dipendente).

Non c’è dunque da dormire sereni nella fase di riapertura delle imprese (grandi o piccole che siano), c’è anzi la necessità, innanzi tutto morale e poi anche giuridica di fare tutto il possibile per impedire il propagarsi del contagio, quantomeno nell’ambiente di lavoro.


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